E' grigia, caro amico, qualunque teoria. Verde è l'albero d'oro della vita.

J.W.Goethe, il Faust

sabato 4 settembre 2010

La Scienza siamo anche noi

Dopo un’attenta valutazione, ho deciso di spostare il blog su questa nuova piattaforma, con l’idea di ottimizzarne la lettura e la distribuzione delle info.
Mi raccomando, continuate a leggere La Scienza siamo anche noi.
Grazie

giovedì 2 settembre 2010

Tumore al seno ed espressione genica

Il tumore al seno è attualmente il tumore più frequente nel sesso femminile. Attraverso sofisticati studi di espressione, sono stati individuati dodici geni che si associano alle forme più aggressive di questa patologia. Si aprono possibili scenari per la sintesi di nuovi farmaci anti-tumorali e per l’impiego di efficaci marcatori prognostici del tumore al seno.


Il seno è una struttura anatomica localizzata tra la pelle e la parete del torace: è costituito da un insieme di ghiandole, tessuto connettivo ed adiposo. L’insieme delle strutture ghiandolari prende il nome di lobulo, la cui aggregazione multipla forma un lobo. Nel seno vi sono solitamente da 15 a 20 lobi.

Dal punto di vista embriologico, il seno in entrambi i sessi origina dal medesimo tipo di tessuto. Durante la pubertà nella donna, contrariamente all’uomo, l’azione degli ormoni estrogeni porta ad uno specifico sviluppo della ghiandola mammaria.
La ghiandola mammaria nella donna è deputata alla produzione del latte. I dotti collegano la massa ghiandolare, localizzata all’interno della mammella, con l’esterno a livello del capezzolo, consentendo il fluire del latte materno.

TUMORE AL SENO
Il tumore al seno colpisce 1 donna su 10.
Attualmente è il tumore più frequente nel sesso femminile, seguito dal tumore del colon-retto, del polmone, dello stomaco e del corpo dell’utero.

Esso è dovuto alla moltiplicazione incontrollata di alcune cellule della ghiandola mammaria che vanno incontro ad una trasformazione maligna. Queste cellule maligne possono produrre delle metastasi, cioè possono staccarsi dal tessuto di origine invadendo distretti anatomici circostanti (linfonodi ascellari) e, successivamente, anche altri organi.

Il cancro al seno è una malattia potenzialmente grave se non è individuata e curata precocemente.
Solitamente, il tumore al seno nelle fase iniziali non causa alcun dolore. In questo senso, l’autopalpazione è una tecnica che può consentire alla donna di individuare precocemente piccoli noduli, palpabili.
Attualmente la mammografia rappresenta il metodo più efficace per fare diagnosi precoce. Le linee guida suggeriscono l’esame mammografico ogni 2 anni dopo i 50 anni di età, tenendo comunque in considerazione la storia personale e familiare di ogni donna.
In Italia vi sono programmi di screening mammografico, in corso o in via di attuazione in gran parte delle Regioni, che prevedono l’esecuzione di una mammografia ogni due anni nelle donne tra i 50 e i 69 anni.

LA VARIABILITA’ DEL GENOMA UMANO
Attraverso il completamento della prima sequenza del genoma di Homo sapiens, realizzata nel 2001, ed i successivi studi di caratterizzazione funzionale e molecolare delle sue 3 miliardi circa di basi del DNA, è stato possibile delineare l’architettura generale del nostro genoma.
La comparazione dei genomi di individui diversi ha poi dimostrato come essi siano fondamentalmente identici se non per una piccola porzione, pari a circa lo 0,1% della loro lunghezza totale.

In questo 0,1% risiede la variabilità genetica della specie umana.
Tale variabilità comprende sia rare variazioni genetiche (mutazioni), potenzialmente responsabili di malattie ereditarie, che quelle varianti più frequenti nelle popolazioni (polimorfismi), quindi verosimilmente benigne.
Le varianti comuni all’interno del genoma umano possono interessare sia la singola base del DNA (sostituzioni di base, dette single nucleotide polymorphisms; SNPs), che regioni più ampie (ripetizioni oppure rimozioni di un numero relativamente elevato di basi, dette copy number variations; CNVs).

A fronte della benignità attribuita a SNPs e CNVs, essendo queste variazioni genetiche frequenti nelle popolazioni, vi sono evidenze scientifiche di come, in specifici contesti molecolari e cellulari, anche queste varianti possano essere alla base di meccanismi patogenetici.
In particolare, nel caso la ripetizione o rimozione di una lunga sequenza di DNA (CNV) interessi una regione codificante (gene), deputata per esempio al controllo della crescita cellulare, questo può rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di cellule cancerogene.

ESPRESSIONE GENICA ALLA BASE DEL TUMORE AL SENO
Nel caso la sequenza di un gene sia stata rimossa oppure risulti replicata più volte all’interno del genoma, questo potrebbe alterare i livelli di espressione del gene (quantità di RNA messaggero). Potrebbe anche avere effetti sul prodotto del gene stesso (concentrazione o funzionalità della proteina), all’interno della cellula. E’ noto come questi processi possano risultare alterati nelle cellule tumorali.

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Goteborg ha studiato un centinaio di donne con tumore al seno, focalizzandosi sulla spiccata variabilità, in termini di DNA e di proprietà biologiche, tipiche delle cellule del carcinoma mammario.
I ricercatori, attraverso l’impiego di tecniche molto avanzate, hanno misurato la quantità di DNA e di RNA messaggero in ogni tessuto tumorale. Complessivamente 15 regioni genomiche diverse hanno mostrato dei livelli alterati, in termini di espressione genica o numero di copie di DNA, in almeno un quarto dei campioni tumorali analizzati.

In particolare, 12 geni sono stati associati alle forme più aggressive di tumore al seno.
Tre geni infatti erano maggiormente espressi in quelle donne che risultano decedute entro 8 anni dalla diagnosi, rispetto alle pazienti con una sopravvivenza maggiore. Altri 9 geni invece sono risultati meno espressi nelle forme tumorali con prognosi più infausta.

Questi dati suggeriscono come i prodotti di questi geni possano avere un effetto sulla progressione del tumore, in termini di crescita e capacità di metastasi delle cellule cancerogene. Il testare ripetutamente l’espressione di questi geni, in corso di terapia anti-tumorale, potrebbe consentire il monitoraggio, a livello molecolare, dell’efficacia della terapia farmacologica in atto. La precisa caratterizzazione dei prodotti proteici di questi geni potrebbe inoltre rappresentare il target per nuove terapie farmacologiche.

Complessivamente, la conferma di questi dati potrebbe suggerire il dosaggio precoce dell’espressione di questi geni, come marcatore prognostico nello sviluppo del tumore al seno.
E’ auspicabile nel futuro, attraverso l’esecuzione di un prelievo ematico contenente cellule tumorali circolanti, la possibilità di fare diagnosi precoce per lo sviluppo del tumore al seno, in modo molto mirato e assolutamente poco invasivo.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

giovedì 26 agosto 2010

Cancro allo stomaco e infezione da Helicobacter pylori

Helicobacter pylori è un batterio che può colonizzare la mucosa gastrica dell’uomo causando gastrite, ulcere e in alcuni casi la comparsa del cancro allo stomaco. E’ stato scoperto il meccanismo a seguito del quale H. pylori inattiva una proteina avente la funzione di soppressione della crescita tumorale nelle cellule ospite.

Lo stomaco è una struttura muscolare cava che si localizza fra l’esofago e l’intestino. Ha il compito sia di completare la demolizione dei frammenti di cibo provenienti dalla masticazione che di scindere i legami chimici presenti nelle molecole di cibo, attraverso l'azione di acidi e di enzimi digestivi secreti dalle ghiandole gastriche.
Questa azione degradatrice dello stomaco ha lo scopo di consentire l'assorbimento delle molecole e dei principi nutritivi a livello dell'intestino tenue.

La superficie interna della mucosa gastrica si solleva in grosse pliche che seguono tutta la morfologia interna dell’organo.
Queste pliche permettono sia la dilatazione dell’organo durante i pasti che il fisiologico trasporto dei liquidi lungo la via gastrica principale in direzione dell'intestino.

HELICOBACTER PYLORI
Helicobacter pylori è un batterio spiraliforme, Gram-negativo, che può colonizzare la mucosa gastrica dell’uomo. Più del 50% della popolazione mondiale è portatrice di H. pylori. L’infezione è molto spesso asintomatica ma nel 10-20% dei casi può provocare gastrite e ulcere in particolare a livello del duodeno, il primo tratto dell’intestino.

La gastrite rappresenta un’infiammazione cronica dello stomaco, mentre l’ulcera è una lesione della mucosa, che produce bruciore o dolore intenso, soprattutto a stomaco vuoto. Talvolta l’ulcera può sanguinare ed eventualmente indurre anemia.

A lungo termine, l’infezione da H. pylori si associa ad un aumentato (2-6 volte) rischio di insorgenza di un linfoma MALT, un tumore del tessuto linfoide a livello delle mucose, e soprattutto di sviluppare un carcinoma gastrico.
Il carcinoma gastrico è il secondo cancro più comune nel mondo, in particolare nei paesi quali la Cina o la Colombia dove l’infezione da H. pylori interessa più della metà della popolazione infantile.

Attualmente l’uomo è l’unico serbatoio di infezione noto per questo batterio, le cui modalità più probabili di trasmissione sono quella orale e oro-fecale. Altra possibili via di contagio potrebbe essere quella attraverso il contatto con acque contaminati.

DIAGNOSI E CURA
La procedura di elezione per diagnosticare l’infezione da H. pylori è rappresentata dal prelievo bioptico durante endoscopia digestiva, dall’esame istologico, dal test di idrolisi dell’urea e dalla coltura microbica.
Test meno sensibili sono quelli di tipo sierologico e del respiro.

Una volta individuata la presenza del batterio, si cerca di eradicare l’infezione attraverso l’impiego di una triplice terapia a base di antibiotici e specifici farmaci inibitori della secrezione acida gastrica.

COME SI SVILUPPA IL CANCRO ALLO STOMACO
Sono noti diversi ceppi di H. pylori, alcuni dei quali sono stati completamente sequenziali a livello del loro genoma. Più di 1500 geni sono stati individuati, un terzo dei quali sono considerati alla base dei meccanismi patogenetici di infezione.

La capacità di H. pylori di causare malattia è strettamente legata ad una sua proteina denominata CagA. Questa molecola, altamente virulenta, è infatti in grado di causare infiammazioni locali, stimolando l'anormale crescita e divisione cellulare che può portare poi all’insorgenza del cancro.
Un gruppo di ricercatori ha recentemente caratterizzato il meccanismo specifico di patogenicità mediato dalla proteina CagA. Bersaglio di questa molecola batterica è risultata essere una molecola, sintetizzata nelle cellule gastriche umane, avente fisiologicamente la funzione di soppressione della crescita tumorale.

H. pylori inietta la proteina CagA nelle cellule epiteliali che rivestono lo stomaco. Qui, CagA è in grado di interferire con diversi meccanismi propri delle cellule gastriche, distruggendone alcune importanti funzioni. Tra i targets di CagA vi è RUNX3, una proteina nota essere un importante soppressore del tumore allo stomaco, la cui riduzione è strettamente associata allo sviluppo di questa patologia. La proteina RUNX3 è infatti un fattore di trascrizione, in grado di modulare l’espressione di geni che controllano la crescita e la morte delle cellule.

Per la prima volta è stato identificato un dominio all'interno della sequenza amminoacidica della proteina CagA in grado di legare una regione specifica di RUNX3: a seguito di questa interazione la proteina RUNX3 va incontro a degradazione, con conseguente mancanza del suo ruolo oncosoppressore all’interno della cellula.

Questo studio ha delineato un particolare meccanismo relativo alla genesi del tumore allo stomaco indotto da H. pylori. I ricercatori si propongono nel futuro di sintetizzare nuove molecole in grado di inibire specificatamente l'interazione tra CagA e RUNX3, bloccandone la degradazione e quindi potendo prevenire le gravi complicazioni indotte da H. pylori a livello gastrico.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

giovedì 19 agosto 2010

Il melanoma: 25 anni di strategie per la diagnosi

Da oltre 25 anni le strategie diagnostiche per il melanoma, tumore maligno della pelle che sta diventando sempre più comune nella popolazione, sono in continuo sviluppo, al fine di ottimizzarne i risultati. Diagnosi precoce basata sull’esperienza medica, affiancata ad innovativi approcci digitali, rappresentano la strategia migliore per ridurre la mortalità a causa del melanoma.


Il melanoma è il più aggressivo tumore della pelle, ritenuto fino a pochi anni addietro una neoplasia piuttosto rara ma che ora sta mostrando una costante crescita nei casi identificati ogni anno. Negli Stati Uniti infatti il melanoma presenta un tasso di crescita più elevato di qualunque altro tumore.
Il melanoma colpisce prevalentemente soggetti di età compresa tra i 30 ed i 60 anni, risultando decisamente più frequente nei soggetti di origine europea, con pelle più chiara.

Il melanoma è un tumore maligno che si origina dai melanociti, specifiche cellule della cute deputate alla sintesi di melanina, sostanza che esercita una funzione protettiva dai raggi solari.

RECENTI SCOPERTE
Recentemente sono stati presentati i risultati di uno studio che dimostrano l’efficacia di un anticorpo monoclonale (ipilimumab) nell’attivare il sistema immunitario contro il melanoma. Questo può portare ad un significativo miglioramento nella sopravvivenza dei pazienti in fase avanzata di malattia.

Inoltre, un gruppo di ricercatori californiani è riuscito ad identificare per la prima volta una ristretta ma altamente specifica popolazione di cellule indifferenziate, di tipo staminale, responsabile dello sviluppo del melanoma.

STRATEGIE PER UNA DIAGNOSI PRECOCE
La prognosi del melanoma cutaneo, cioè la velocità di accrescimento della massa tumorale, è strettamente legata allo spessore che esso ha raggiunto nella pelle, al momento della diagnosi e della successiva asportazione. Negli Stati Uniti il melanoma allo stadio invasivo rappresenta il quinto e sesto tipo di tumore più frequentemente diagnosticato rispettivamente nell’uomo e nella donna.

Fare diagnosi precoce per questo tumore significa riuscire ad individuare delle crescite tumorali, a livello della cute, anche con uno spessore inferiore al millimetro. La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi di melanoma invasivo è aumentata dall’83% dei casi diagnosticati negli anni settanta fino al 93% dei casi identificati agli inizi del 2000.
Dal momento che l’approccio terapeutico primario per la cura del melanoma, cioè la sua rimozione chirurgica, non è sostanzialmente cambiato dal punto di vista tecnico, si ritiene che l’incremento nella sopravvivenza a 5 anni sia dovuto essenzialmente ad una più precoce diagnosi della malattia.

Diagnosi precoce e precisa, con un rapido trattamento chirurgico sono considerati i punti cardine per il successo nella cura del melanoma, come emerge dalla revisione degli approcci diagnostici per questo tumore che verrà pubblicata sulla rivista CA: A Cancer Journal for Clinicians.

Sebbene l’esame istologico, a seguito di biopsia cutanea, rappresenti la tecnica diagnostica più affidabile, fin dall’inizio si è cercato di sviluppare delle strategie non invasive, essendo questo uno dei pochi tumori che si sviluppa al di fuori dell’organismo.
Prima degli anni ottanta, la diagnosi di melanoma si basava sul riscontro macroscopico, e solitamente piuttosto infausto in termini di prognosi, di un sanguinamento della lesione cutanea.
Nel 1985, con l’intento di fare diagnosi più precoce, sono stati dettagliati dei precisi criteri morfologici, denominati con l’acronimo ABCD: Asimmetria; Bordi irregolari; Colore variabile; Diametro >6 mm.
La validità dei criteri ABCD è stata poi testata con successo in programmi di screening a livello della popolazione generale.

Negli anni novanta, la dermoscopia è stata applicata nella pratica diagnostica comune. Questa tecnica, attraverso l’impiego di un complesso di lenti che vengono avvicinate alla pelle, consente degli ingrandimenti fino a 10 volte, arrivando quindi ad analizzare strutture anatomiche al di sotto dell’epidermide fino alle papille del derma.
Nell’ultimo decennio, l’approccio digitale ha implementato la diagnosi dermoscopica nella pratica clinica. Attraverso l’impiego di specifici software di analisi d’immagine, la dermoscopia è stata informatizzata, permettendo anche la comparazione fra immagini diverse di lesioni cutanee, precedentemente depositate in apposite banche dati.
Vi sono inoltre alcuni studi in merito a specifici marcatori molecolari (espressione di RNA messaggeri) la cui presenza o assenza consente di discriminare fra lesioni cutanee benigne e melanomi.

Complessivamente, l’evoluzione tecnico-scientifica negli ultimi 25 anni ha portato ad un aumento nella sensibilità e nella specificità della diagnosi del melanoma. È comunque fondamentale che qualunque strumento tecnico diagnostico sia affiancato dalla conoscenza e dalla esperienza clinica, propria del medico dermatologo, al fine di ottimizzare la diagnosi precoce del melanoma.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

giovedì 12 agosto 2010

Vacanze

Serene vacanze a tutti noi, appassionati della Scienza e della Vita.

giovedì 5 agosto 2010

Sangue artificiale: recenti progressi

La pronta disponibilità di sangue da trasfondere rappresenta uno dei principali problemi che affligge i sistemi sanitari a livello mondiale. Sebbene molto sia stato investito per produrre un sangue artificiale, complessivamente i risultati non sono stati confortanti. Oggi, nuove e incoraggianti notizie arrivano dai fronti di guerra.


Il sangue è un tessuto di natura liquida, facente parte del gruppo dei tessuti di tipo connettivale. Esso è un liquido di colore rosso intenso (se ricco di ossigeno, quando circolante all’interno del sistema arterioso) oppure di colore rosso più scuro (essenzialmente non più ossigenato e circolante nel sistema venoso), costituente circa il 7% del peso corporeo, con una viscosità di circa 4 volte superiore a quella dell'acqua. In un individuo adulto maschio scorrono circa 5 litri di sangue.

Il sangue è composto per circa il 55% da una parte liquida detta plasma, e per il restante 45% da una parte corpuscolata, costituita da specifiche cellule circolanti.
Il plasma, di colore giallo, è composto da acqua (90%) e da molecole proteiche.
Le cellule circolanti del sangue sono rappresentate dagli eritrociti o globuli rossi, dai linfociti, dai granulociti neutrofili, eosinofili e basofili, dai monociti e dalla piastrine.
Il sangue attraverso il sistema circolatorio raggiunge ogni organo e distretto corporeo, cedendo ossigeno e nutrienti alle cellule dell’organismo e raccogliendo i prodotti di scarto derivanti dal metabolismo cellulare.

PERCHE’ CREARE DEL SANGUE ARTIFICIALE?
Uno dei più grossi limiti del sangue naturale è quello della sua non completa compatibilità fra soggetti diversi, aspetto che è riconducibile all’esistenza dei 4 principali gruppi sanguigni nell’uomo.
La possibilità di trasfondere del sangue da un individuo ad un altro è infatti legata alla presenza di particolari molecole, presenti sulla superficie dei globuli rossi, che se non precisamente caratterizzate e selezionate, a seconda della compatibilità di gruppo fra ricevente e donatore, possono portare a reazioni avverse, anche mortali, nel soggetto ricevente.
Il sangue artificiale, appositamente creato, non avrebbe invece alcuna difficoltà di compatibilità con qualunque gruppo sanguigno del ricevente. Potrebbe quindi essere usato immediatamente, addirittura già in ambulanza, nei casi di emergenza.

Oggi, ogni sacca di sangue è sottoposta a rigorosi esami sierologici e molecolari per evidenziare potenziali infezioni a livello del donatore. Tuttavia, una percentuale di rischio rimane ancora tanto che, secondo alcuni dati, l'incidenza di falsi negativi al test per il virus HIV è di uno su 40.000. Inoltre, è importante ricordare come vi possano essere delle infezioni, i cui agenti eziologici non sono ancora noti e quindi non vengono ricercati a livello ematico.
Il sangue artificiale, ottenuto attraverso procedure ben controllate e sterili, annullerebbe i rischi di contrarre qualunque infezione attraverso la trasfusione.

Infine il sangue naturale, sebbene conservato a temperatura controllata, va incontro ad un decadimento delle qualità e delle funzioni a livello delle cellule che lo compongono. Il sangue artificiale potrebbe essere addizionato con opportune sostanze che lo renderebbero più stabile e quindi utilizzabile molto più a lungo.

IL SANGUE ARTIFICIALE OGGI
Attualmente, attraverso sofisticate procedure di prelievo, è possibile isolare specifiche componenti del sangue, con lo scopo di trattarle in vitro, per una successiva reinfusione a fini terapeutici. Tuttavia, sebbene molto sia stato investito in termini di ricerche anche con promesse poi smentite da risultati sperimentali non confortanti, la complessità del tessuto sangue rende ad oggi difficile la sintesi di un sangue artificiale che ne riproduca tutte le caratteristiche cellulari.

Tra le aziende primariamente coinvolte nella sintesi di trasportatori sintetitici dell’ossigeno, detti hemoglobin-based oxygen carriers (HBOC), vi sono la Baxter, la Biopure, la Northfield, ognuna delle quali attraverso trial clinici di fase II e III è riuscita a dimostrare come le rispettive molecole di sintesi (rispettivamente HemAssist, Hemopure, PolyHeme) fossero in grado di legare e poi rilasciare ossigeno, in modo corretto. Tuttavia, si sono sempre registrati degli effetti indesiderati, fra cui la comparsa di ipertensione nei soggetti trasfusi.

Più recentemente, ricercatori statunitensi avevano annunciato di aver creato in vitro delle particelle con le stesse caratteristiche dei globuli rossi. Chiamate red blood cells-mimicking particles, erano infatti molto simili agli eritrociti per forma e taglia. Queste particelle coniugavano la principale capacità del globulo rosso di legare ossigeno con la possibilità di trasportare molecole farmacologiche oppure specifici traccianti di contrasto, con lo scopo di migliorare le procedure diagnostiche per esempio nel caso della risonanza magnetica nucleare.

Nuovo impulso in questo settore viene oggi da un progetto finanziato direttamente dal Pentagono per curare i soldati feriti nelle zone di guerra.
Il programma “blood pharming”, iniziato nel 2008 e portato avanti dal gruppo di ricerca del Pentagono, rientra infatti nella complessa strategia di ricerche sperimentali volte alla messa a punto di efficaci terapie di primo soccorso, nel contesto di zone ad alto rischio. Uno dei principali problemi degli scenari di guerra è inoltre rappresentato dal fatto che le aree dei conflitti sono spesso localizzate in zone impervie, difficili da raggiungere.

Per quanto riguarda la realtà statunitense, la maggioranza delle donazioni di sangue proviene dallo stesso territorio degli Stati Uniti. Quindi, in alcuni casi più di 20 giorni possono passare prima che il sangue arrivi al fronte di guerra. Il rischio che il sangue si deteriori, perdendo le sue capacità terapeutiche, risulta perciò alto.

L'industria statunitense Arteriocyte, con il finanziamento di 2 milioni di dollari avuto per il progetto, è riuscita ad ottenere il tessuto sanguigno partendo dalle stesse cellule staminali ematopoietiche che lo producono fisiologicamente. Queste cellule ematopoietiche, prelevate dal cordone ombelicale, vengono incubate in una macchina che simula il comportamento del midollo osseo umano.
A partire da un campione di sangue cordonale è possibile ottenere 20 sacche di sangue, con un costo di circa 5.000 dollari a sacca.

Arteriocyte ha sottoposto i primi campioni di sangue 0 negativo all'autorità di controllo americana Food and Drug Administration, per potere avviare la prima sperimentazione del prodotto sull'uomo. Si ritiene che l’approvazione di questo processo, la sua validazione in termini di sicurezza e la relativa realizzazione su scala industriale potrebbero ridurre i costi a circa 1.000 dollari a sacca.

giovedì 29 luglio 2010

Cellule staminali cardiache: risultati e future applicazioni

Cellule staminali, altamente indifferenziate, possono essere isolate dal cuore dei pazienti. Tramite complesse procedure, queste stesse cellule possono trasformarsi in cellule specifiche del muscolo cardiaco, potendo quindi sostituire aree danneggiate dell’organo come avviene per esempio a seguito di infarto.


Le patologie a carico del muscolo cardiaco e del sistema circolatorio rappresentano oggi la principale causa di mortalità nei paesi industrializzati. In particolare, cardiopatia ischemica e ictus concorrono a circa un quarto di tutti i decessi che si registrano annualmente.
In Europa più di 1 milione di individui muore ogni anno per infarto del miocardio.

LE CELLULE STAMINALI
La cellula staminale è una cellula altamente indifferenziata, con spiccate capacità replicative, potenzialmente in grado di differenziarsi in qualunque tipo di cellula. Questa è dette cellula pluripotente.
Nelle primissime fasi dello sviluppo embrionale dei mammiferi, tutte le cellule sono virtualmente uguali. Infatti ogni cellula formante l’embrione è in grado di svilupparsi in qualunque linea cellulare, propria di uno dei tessuti e degli apparati formanti poi l’organismo nella sua interezza.
Passate le prime fasi dell’embriogenesi tuttavia, le cellule si specializzano, andando ad esprimere solo specifiche molecole sulla membrana. Questo processo di differenziazione indirizza funzionalmente le cellule verso un determinato tessuto ed organo.

Questo processo di sviluppo nei mammiferi è a senso unico. In condizioni normali infatti, non accade mai che una cellula specializzata possa de-differenziarsi verso un suo precursore, più versatile.
Oggi è noto come, all’interno di ogni organo, vi siano delle cellule, in numero esiguo, che rappresentano delle linee progenitrici con delle capacità di parziale pluripotenza.

CELLULE STAMINALI NEL CUORE
In merito agli approcci più innovativi per la cura delle patologie cardiache, diverse ricerche hanno impiegato cellule staminali, isolate dal midollo osseo. Complessivamente i risultati, seppur positivi in termini di sicurezza del trattamento, non sono stati soddisfacenti soprattutto per la difficoltà di indurre una delle peculiarità della cellula cardiaca (cardiomiocita), cioè la sua capacità di contrarsi in modo ritmico. Questo in ultimo va a discapito della capacità da parte del cuore di pompare il sangue nel sistema circolatorio dell’organismo.

Nel quadro dei progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea (EU FP7), vi è una linea denominata CardioCell che si dedica specificatamente alla messa a punto di nuove strategie terapeutiche per la riparazione del tessuto cardiaco danneggiato.
A seguito di un infarto infatti alcune cellule cardiache vanno incontro a morte. Queste non sono sostituite da nuove cellule muscolari bensì da tessuto cicatriziale fibroso. La ricerca di base e preclinica sta quindi investendo molte risorse per individuare tecniche efficaci e sicure che consentano di trapiantare cellule muscolari cardiache all’interno del tessuto danneggiato.

In questo contesto, un gruppo di ricercatori dell’Imperial College di Londra sta sperimentando una nuova tecnica per identificare ed isolare, direttamente dal cuore dei pazienti, cellule staminali cardiache, che siano poi in grado di differenziarsi in cellule cardiomiocitiche.

Gli aspetti salienti della ricerca inglese sono tre: 1) le cellule isolate sono realmente indifferenziate, cioè staminali; 2) le cellule sono in grado di attivare i corretti meccanismi molecolari per differenziarsi in cardiomiociti; 3) prova fondamentale della loro staminalità è data dal fatto che non produco la miosina cardiaca, proteina tipica della cellula ormai differenziata del muscolo cardiaco.

La tecnica, inizialmente messa a punto nel topo, è stata preliminarmente trasferita con successo nell’uomo. Ulteriori conferme sono necessarie, essendo infatti diversi i marcatori che vengono impiegati per l’identificazione delle cellule staminali, nel modello cellulare del topo rispetto all’uomo.

L’obbiettivo futuro è quello di ottimizzare la tecnica in modo da creare una procedura terapeutica che preveda l'identificazione, la raccolta e la moltiplicazione in vitro di queste cellule, per un’applicazione clinica sicura nel caso di un danno al muscolo cardiaco, quale può essere quello causato dall’infarto.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

giovedì 22 luglio 2010

La longevità è scritta nel genoma umano

Oggi viviamo in media 80-85 anni. Il motivo per il quale alcune persone sono addirittura più longeve, cioè vivono più della media, è in parte scritto nei loro geni.


L’invecchiamento rappresenta quel processo di tipo degenerativo a cui le cellule, a livello microscopico, insieme a tutto l’organismo, a livello macroscopico, vanno fisiologicamente incontro.
La longevità definisce una durata della vita notevolmente superiore alla media.
Oggi nei paesi industrializzati gli individui vivono in media 80-85 anni. Questo dato si contrappone a quello dei paesi meno sviluppati nei quali gli uomini vivono dai 35 ai 60 anni.

E’ noto come il generale miglioramento delle condizioni di vita, il progresso delle conoscenze nella medicina e nella biologia con la comprensione dei meccanismi patologici alla base di molte malattie, e il conseguente sviluppo di strategie preventive prima che curative, abbiano portato sia ad un aumento della durata media della vita che ad una diminuzione della mortalità.
Si stima infatti che la popolazione mondiale potrà arrivare agli 8 miliardi entro il 2025.

Si ritiene che l’azione combinata di molteplici fattori ambientali (stile di vita, attività fisica, dieta, assenza di fattori di rischio quali fumo e obesità) con una specifica predisposizione genetica possa avere dei benefici sul processo dell’invecchiamento, sia micro che macroscopico, portando in alcuni contesti anche a casi di sostanziale longevità.

LA VARIABILITA’ DEL GENOMA UMANO
Il progetto di studio del genoma umano ha visto il raggiungimento nel 2001 di un traguardo epocale, con la stesura di una prima versione della sua intera sequenza. Uno sforzo tecnologico e finanziario a livello laboratoristico ha infatti consentito, nell’arco di circa 10 anni, di allineare le circa 3 miliardi di basi del DNA (acido desossiribonucleico) di Homo sapiens.

Successivi studi di caratterizzazione di questa enorme sequenza, di per sé poco informativa, hanno evidenziato come solamente un quarto circa di essa sia costituita da geni. Inoltre, è emerso come le sequenze geniche realmente espresse a livello cellulare corrispondano a solo il 2-3% del genoma complessivo.

La comparazione dei genomi di individui diversi ha addirittura dimostrato come essi siano fondamentalmente identici se non per una piccola porzione, pari a circa lo 0,1% della loro lunghezza totale. Questo dato apparentemente irrisorio, corrisponde tuttavia a circa 3 milioni di basi di DNA.

In questo 0,1% risiede la variabilità genetica della specie umana.
Nelle sue 3 milioni di basi di DNA sono presenti sia le varianti più frequenti, quindi verosimilmente benigne, del genoma (polimorfismi) che eventuali mutazioni (rare variazioni genetiche), potenzialmente responsabili di malattie ereditarie.

STUDIO DEI CARATTERI COMPLESSI
I polimorfismi rappresentano quindi la variabilità genetica più comune, perché frequente, fra gli individui e quindi apparentemente senza alcune effetto dannoso sulle cellule dell’organismo.
Un polimorfismo è presente circa ogni 1000 basi di DNA, all’interno del nostro genoma.
Questi polimorfismi, nel corso degli anni, sono diventati un potentissimo strumento per estese analisi di biologia molecolare, soprattutto nel campo della comprensione delle basi genetiche delle patologie complesse.

I tratti complessi, quali l’invecchiamento e la longevità ad esso connessa, piuttosto che le patologie multifattoriali, quali l’ipertensione o l’infarto, sono infatti quei contesti nei quali si ritiene vi possa essere una complessa interazione fra fattori genetici (propri dell’individuo) ed ambientali (esterni all’individuo).

Nel corso degli anni, i ricercatori hanno imparato a sfruttare la presenza dei polimorfismi del DNA, all’interno dei genomi di ogni individuo, al fine di usarli come indicatori di specifiche regioni del nostro genoma, potenzialmente correlate all’insorgenza di malattie.

LA COMPLESSITA’ GENETICA ALLA BASE DELLA LONGEVITA’
L’impiego dei polimorfismi genetici per studiare la longevità nell’uomo è stata efficacemente applicata da un gruppo di ricercatori dell’Università di Boston, con in prima linea l’italiana Paola Sebastiani.

Lo studio pubblicato su Science è stato condotto su più di 500.000 polimorfismi diversi del DNA, comparandone la presenza fra 1055 individui di età compresa fra i 90 e i 115 anni (età media 103 anni) e 1267 soggetti di controllo, con età media di 73 anni.

Il modello genetico così ottenuto, mediante complesse analisi biostatistiche, punta l’attenzione su 105 polimorfismi diversi, localizzati in 77 geni responsabili di molteplici funzioni all’interno delle cellule.
Attraverso la presenza di questi 105 marcatori è possibile fare una stima sull’aspettativa di vita, essendo essi presenti nel 77% degli ultra centenari indagati rispetto ai controlli.

I ricercatori hanno poi valutato l’associazione di queste varianti genetiche comuni con alcune malattie. Sono emersi quindi 19 gruppi diversi, costituiti ognuno da un pool caratteristico di polimorfismi, ognuno dei quali correla con la comparsa di tipiche malattie legate all’invecchiamento, quali la demenza, l’ipertensione, le patologie cardiovascolari.

Gli stessi autori sottolineano come il modello non sia perfetto: questo conferma come fattori ambientali, indipendenti da quelli genetici, possano avere un ruolo nella longevità della specie umana.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

giovedì 15 luglio 2010

Identificate cellule staminali responsabili del melanoma

Una ristretta ma altamente specifica popolazione di cellule staminali è responsabile del melanoma, il più aggressivo tumore della pelle.


Il melanoma rappresenta una delle patologie tumorali più aggressive in grado di colpire il nostro organismo: è il tumore della pelle che attualmente interessa oltre 100.000 persone nel mondo, la cui incidenza è aumentata del 15 per cento negli ultimi dieci anni
In Europa, il melanoma mostra tassi di incidenza più alti fra gli abitanti dei Paesi del Nord, con carnagione e occhi chiari. Annualmente in Italia, si ha l’identificazione di circa 10-12 nuovi casi ogni 100.000 abitanti.

L’esposizione solare intensa, soprattutto nelle ore più calde della giornata e spesso concentrata in poche settimane all’anno, rappresenta il più importante fattore di rischio.

PROGNOSI
La prognosi del melanoma cutaneo, cioè la velocità di accrescimento della massa tumorale, è strettamente legata allo spessore che esso ha raggiunto nella pelle, al momento della diagnosi e della successiva asportazione.
Negli ultimi anni la sopravvivenza a questo tumore è significativamente migliorata.

Attraverso capillari campagne di prevenzione e lo sviluppo di tecniche diagnostiche sempre più sensibili, è infatti possibile arrivare a fare diagnosi molto precocemente, quando cioè il melanoma non ha ancora raggiunto lo spessore di un millimetro. In questi casi la prognosi è molto favorevole, con tassi di sopravvivenza fra l’87% e il 97%. Nel momento in cui lo spessore della massa tumorale è superiore ai tre millimetri, la sopravvivenza può scendere al 50%.

CELLULE STAMINALI TUMORALI
Per definizione, la cellula staminale è una cellula altamente indifferenziata, con spiccate capacità replicative che la rendono virtualmente immortale.

Tradizionalmente, il meccanismo patogenetico alla base dello sviluppo tumorale prevede l’accumulo di una serie di mutazioni casuali, a livello del DNA della cellula, che in ultimo portano la cellula stessa ad una replicazione incontrollata.
Si ritiene che la cellula staminale tumorale, detta anche cellula zero, costituisca l’origine stessa di questo processo, rappresentando l’ultimo e più maligno baluardo del tumore nei confronti delle terapie farmacologiche.
Queste cellule staminali, pur rappresentando una parte minoritaria del pool di cellule tumorali, presentano un tasso di crescita molto inferiore rispetto al resto della massa tumorale. Questa aspetto consente loro di eludere l’azione della maggioranza dei farmaci antitumorali.

Quindi, dopo l’apparente eradicazione del tumore e la sospensione della terapia farmacologica, le cellule staminali tumorali sono in grado di replicarsi, generando velocemente nuove cellule cancerogene. Nella maggior parte dei casi, addirittura queste nuove cellule danno origine ad un tumore anche più aggressivo del primo.

CELLULE STAMINALI NEL MELANOMA
Fino ad oggi, non erano state identificate le cellule staminali all’interno del melanoma.

Un gruppo di ricercatori della Stanford University School of Medicine in California ha pubblicato sulla rivista Nature la prima identificazione di cellule, classificabili come staminali, all’interno del melanoma, il più aggressivo tumore della pelle.

La molecola CD271 è stata infatti usata come lo specifico marcatore della presenza delle cellule staminali nel melanoma.
Le cellule staminali, CD271 positive sulla loro membrana, risultano invece prive di altre molecole, impiegate come specifici bersagli dei farmaci antitumorali, solitamente utilizzati nella cura del melanoma.

I ricercatori californiani hanno dimostrato le capacità replicative in senso tumorigenico delle cellule CD271 positive: infatti, queste cellule staminali sono in grado di generare un melanoma, da frammenti di cute umana trapiantati nel modello sperimentale del topo. Al contrario, cellule CD271 negative non sono in gado di generare alcun tessuto tumorale.

PROSPETTIVE FUTURE
Per lungo tempo si è pensato che l’aggressività e la resistenza alle terapia farmacologiche, proprie dei tumori, fossero dovute alle caratteristiche stesse delle cellule maligne.
Oggi, sia nel melanoma che in altri tumori, si sta gettando nuova luce sull’essenza stessa della loro malignità ed invasività.

All’interno della popolazione di cellule tumorali, vi è un gruppo esiguo di cellule staminali, certamente immune a molte terapie adottate finora ed in grado di generare nuove cellule cancerogene. La scoperta di queste staminali, consentirà di focalizzare la ricerca di nuove terapie testando direttamente la resistenza di queste cellule.

Dopo il recente annuncio al congresso mondiale di oncologia svoltosi a Chicago (46° Congress of the American Society of Clinical Oncology, ASCO) dell’efficacia di un anticorpo monoclonale (ipilimumab) nell’attivare il sistema immunitario contro il melanoma, complessivamente, a fronte anche delle nuove conoscenze sulle cellule staminale tumorali, si aprono nuovi e promettenti scenari per la terapia del più aggressivo tumore della pelle.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

giovedì 8 luglio 2010

Pap test e tumore della cervice uterina: screening preventivo in Italia

Il cancro della cervice uterina rappresenta il secondo tumore maligno nella donna. Il gruppo tecnico nazionale Passi (Progressi delle aziende sanitarie per la salute in Italia) presenta risultati positivi in merito al programma di screening nazionale, mediante Pap test, per il tumore al collo dell’utero.


Il cancro della cervice uterina è una neoplasia maligna che si sviluppa nell’estremità inferiore dell’utero.
L’utero è l’organo dell’apparato femminile dove si stabilisce la cellula uovo dopo la fecondazione da parte dello spermatozoo e dove quindi si sviluppa l’embrione durante la gravidanza. L’utero ha la forma di un imbuto rovesciato, con la parte superiore che costituisce il corpo dell’organo e l’estremità inferiore, più ristretta, chiamata collo o cervice.

EPIDEMIOLOGIA
Il cancro della cervice uterina rappresenta, a livello mondiale, il secondo tumore maligno nella donna. Sebbene la maggioranza delle donne nel corso della propria vita non mostri complicazioni a seguito di un’infezione virale potenzialmente in grado di sviluppare questo tumore, in Italia si stimano circa 3.400 nuovi casi all’anno. Il tasso di incidenza è di 10 casi ogni 100.000 donne, con circa 1.000 decessi.
Negli ultimi anni, è stato evidenziato un significativo trend di diminuzione sia nell’incidenza della patologia che nella mortalità ad essa legata.

ANATOMIA
La cervice rappresenta il collegamento anatomico tra l’utero e la vagina. Il collo dell’utero, per circa la metà della sua lunghezza, può risultare visibile con adeguate attrezzature mediche mentre il resto si colloca al di sopra della vagina, più all’interno.
Due differenti tipi di cellule epiteliali rivestono la cervice: cellule colonnari, ciliate, a singolo strato sono presenti nella parte superiore rivolta verso l’utero; cellule squamose, appiattite, disposte a strati su una membrana basale rivestono la zona più prossimale alla vagina.
La zona di transizione definisce il punto anatomico di incontro fra questi due tipi cellulari. Questa zona è per sua natura fisiologicamente soggetta al fenomeno della metaplasia, cioè la trasformazione reversibile da un tipo cellulare all’altro, a seguito di precisi stimoli (la pubertà, il regolare ciclo mestruale, la menopausa).

Tuttavia, il fenomeno della metaplasia può assumere i connotati di una trasformazione non più fisiologica e strettamente controllata: l’epitelio colonnare può venire infatti sostituito da un tessuto epiteliale, squamoso di tipo metaplastico.
La maggior parte dei tumori della cervice si sviluppa dalle cellule che si trovano proprio nella zona di transizione.

CAUSE
E’ noto come il principale fattore di rischio per lo sviluppo del tumore alla cervice sia l’infezione da Papilloma virus umano (HPV). A livello mondiale, l’infezione da HPV rappresenta la più comune infezione a trasmissione sessuale negli adulti.
Alcuni ceppi di questo virus sono infatti in grado di interferire con la fisiologica trasformazione metaplastica a livello delle cellule della cervice, portando allo sviluppo di una neoplasia maligna.

Alcuni fattori sembrano aumentare il rischio di insorgenza del tumore alla cervice: il fumo di sigaretta, una dieta povera di frutta e verdura, l’obesità, la co-infezione da Clamidia, la famigliarità per questo tumore (sebbene al momento non siano stati identificati geni responsabili di un aumentato rischio).

VACCINO E PAP TEST
L’uso del profilattico e la vaccinazione rappresentano delle efficaci misure che possono limitare le possibilità di infezione, pur non garantendo la totale immunità.
Attualmente in Italia è in commercio un vaccino contro l’infezione da HPV. Questo vaccino, di tipo proteico, è efficace contro i ceppi di HPV-16 e HPV-18, responsabili di circa due terzi dei casi di tumore al collo dell’utero. Lo stesso vaccino è inoltre efficace contro le infezioni da HPV-6 e HPV-11, responsabili del 90% circa dei condilomi genitali.

Generalmente le prime fasi dello sviluppo tumorale sono asintomatiche ed anche successivamente la sintomatologia può non essere facilmente riconducibile al sospetto di una patologia tumorale. E’ importante comunque prestare attenzione ad eventuale dolore durante i rapporti sessuali, oppure perdite anomale di sangue, per esempio dopo un rapporto sessuale, tra due cicli mestruali o durante la menopausa.

La strategia di prevenzione assolutamente raccomandata è quella dei regolari controlli ginecologici.
Nel corso della visita, infatti, può essere effettuato il Pap test, un esame indolore e veloce che permette di identificare la presenza di cellule pre-cancerose. E’ raccomandabile che ogni donna, a partire dall’inizio dell’attività sessuale e comunque non oltre i 25 anni e almeno fino ai 70 anni, si sottoponga al Pap test, ogni 2 anni.

PROGRAMMA DI SCREENING NAZIONALE
Il programma di screening nazionale prevede l’esecuzione del Pap test, ogni tre anni, da parte delle donne nella fascia di età 25-64 anni.

Nel 2007 le donne italiane inserite nel programma di screening sono state circa 12 milioni (pari al 72% della popolazione target).
Soprattutto le donne di età superiore ai 35 anni, con un buon livello di istruzione, si sottopongono al Pap test.
Il programma di screening si sta espandendo sempre di più in Italia, pur essendoci ancora una carenza di partecipazione nel Sud e nelle isole.
Questo è quanto emerge dai dati del gruppo tecnico nazionale Passi (Progressi delle aziende sanitarie per la salute in Italia), il sistema di sorveglianza sanitaria creato dall'Istituto superiore di Sanità.

Risulta come il 75% delle donne tra 25 e 64 anni abbia effettuato almeno un Pap test negli ultimi tre anni, come raccomandato dalle linee guida.
Fattore importante nella scelta di fare il Pap test appare essere il livello di istruzione. Il 72% di donne con il titolo di studio più alto ha fatto il test, rispetto al 66% di quelle con livello di istruzione più basso.
In parallelo, anche la condizione economica risulta avere un peso sulla decisione di accedere al programma di controllo. L'83% delle donne senza problemi economici ha eseguito il Pap test, rispetto al 65% delle donne con difficoltà economiche.

Complessivamente è auspicabile una sempre più capillare informazione in merito al programma di screening per il tumore della cervice uterina, a fronte del fatto che il Pap test rappresenta la strategia più efficace come prevenzione secondaria all’insorgenza di questa patologia.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

lunedì 5 luglio 2010

La nutrizione: i concetti fondamentali

Presentiamo qui i concetti fondamentali della nutrizione umana: macronutrienti e micronutrienti.

Il termine nutrizione definisce l’atto dell’approvvigionamento da parte degli organismi viventi di tutte quelle sostanze (cibo) necessarie per la loro vita. Oggi, con lo stesso termine si definisce la scienza che studia il rapporto tra le abitudini alimentari (dieta) e lo stato fisico (salute) di una persona.

La nutrizione si basa sul principio che un ottimale stato fisico si raggiunge bilanciando l'assunzione di differenti principi nutritivi, quali glucidi, lipidi, proteine, vitamine.
Questi elementi concorrono essenzialmente a:
produrre energia metabolica per le funzioni vitali (carboidrati, grassi, proteine);
fornire componenti strutturali per la crescita e la riparazione dei tessuti (proteine);
fornire gli elementi necessari alle reazioni biochimiche, all’interno della cellula (minerali e vitamine).

Complessivamente i nutrienti possono essere divisi in macronutrienti (da assumersi in quantità relativamente elevate) e micronutrienti (necessari in piccole quantità).
I macronutrienti comprendono carboidrati, grassi, fibre, proteine e acqua.
I micronutrienti sono i minerali e le vitamine.

Gli aminoacidi sono le unità base delle proteine, mentre i lipidi (grassi) sono fra i costituenti principali delle membrane cellulari e di alcune molecole messaggere all’interno delle cellule.
I macronutrienti hanno il compito di fornire questi componenti base, cioè aminoacidi e lipidi, alle nostre cellule. A loro volta, gli stessi componenti base possono essere impiegati per produrre energia all’interno della cellula.
I grassi forniscono più del doppio di energia rispetto ai carboidrati e alle proteine, anche se l'energia netta a livello cellulare può dipendere da vari fattori, fra cui il grado di assorbimento degli specifici elementi e la stessa attività digestiva.

Gli atomi di carbonio, idrogeno e ossigeno formano le molecole dei carboidrati e dei grassi. I carboidrati possono assumere delle strutture semplici monosaccaridiche (quali glucosio, fruttosio) oppure più complesse, polisaccaridiche come l’amido. I grassi di origine animale sono invece composti da trigliceridi, cioè tre monomeri di acidi grassi legati ad uno scheletro di glicerolo.
E’ importante che nella nostra dieta vi siano anche dei grassi, in quanto alcune di queste molecole (dette essenziali) non sono sintetizzabili all’interno delle nostre cellule.
Gli aminoacidi, componenti base delle molecole proteiche, sono costituiti da atomi di azoto, oltre che di carbonio, idrogeno e ossigeno. Come nel caso dei grassi, vi sono alcuni aminoacidi essenziali che vanno obbligatoriamente assunti attraverso la dieta quotidiana.
Le cellule, attraverso processi biochimici che consumano energia, sono in grado poi di convertire alcuni aminoacidi in glucosio che a sua volta può essere impiegato per produrre energia.

I micronutrienti sono i minerali e le vitamine. Come suggerisce il nome sono sostanze presenti fisiologicamente a basse quantità nel nostro organismo, la cui carenza tuttavia può portare a seri squilibri e patologie. Essi non possono essere sintetizzati all’interno dell’organismo ma, non essendoci alcun alimento che li contenga tutti e nella giusta quantità, è importante avere una dieta varia. Tuttavia, alcune sostanze sono difficilmente assumibili attraverso l'alimentazione e quindi ne è consigliabile la specifica integrazione.

In conclusione, possiamo dire che il vecchio adagio secondo il quale sia importante mangiare un po' di tutto con moderazione, rimane certamente valido.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

mercoledì 30 giugno 2010

Roma: seconda Conferenza Internazionale sulla Scienza della Sostenibilità (ICSS)

Il premio Nobel Elinor Ostrom così ha parlato a Roma: “Non aspettate, agite”.


Elinor Ostrom, prima donna ad avere ricevuto il Nobel per l’economia, è attualmente a capo del Centro Studi sulla Diversità dell’Arizona State University.
“Ogni singola persona, – ha proseguito la Ostrom – con i suoi comportamenti d’acquisto, può fare molto. Acquistare pensando al futuro e dando attenzione al concetto di risparmio, percepire il valore dei bei comuni sono elementi che possono farci costruire un futuro di sviluppo sostenibile. Certo a livello politico è necessario un dialogo fondamentale con il mondo accademico e non bisogna scoraggiarsi per gli insuccessi”.

La seconda Conferenza Internazionale sulla Scienza della Sostenibilità (ICSS) è stata aperta dalla Ostrom, con un chiaro e forte messaggio che ne sottolinea uno dei principali obiettivi: l’attuazione di un dialogo interdisciplinare fra diverse scienze al fine di diffondere sempre più la co-scienza della sostenibilità.

L’economista statunitense prosegue invocando una “contaminazione del sapere”, che suggerisca precise e condivise azioni concrete, senza disdegnare il senso critico, “applicando processi correttivi ad errori del passato”.

La Conferenza è stata organizzata dal Centro Interuniversitario di Ricerca per lo Sviluppo Sostenibile della Sapienza Università di Roma (CIRPS).
Il CIRPS è una realtà di ricerca trasversale al mondo accademico, la cui azione è finalizzata alla diffusione di conoscenze scientifiche, alla stesura di progetti ed alla ricerca di approcci a livello sociale e lavorativo, che abbiano come scopo lo sviluppo sostenibile.

Dal 1998 il CIRPS fa parte di un gruppo di Università ed Enti di ricerca a livello mondiale, impegnato nell’avanzamento della Scienza della Sostenibilità. Il CIRPS vuole promuovere la condivisione del benessere a livello mondiale, senza che questo danneggi l’ambiente, qualche gruppo sociale o le generazioni future.

martedì 29 giugno 2010

Il biologo: competenze in campo nutrizionale

Il Ministero della Salute ha, per la prima volta in modo ufficiale, sancito la piena autonomia del biologo nella stesura di profili nutrizionali.


La nutrizione è la scienza che studia il rapporto tra le abitudini alimentare e lo stato di salute di una persona. Essa si basa sul principio che il mantenimento del corretto stato di salute si raggiunge equilibrando, nel giusto rapporto, l'assunzione di principi nutritivi differenti, quali glucidi, lipidi, proteine, vitamine.
Uno dei principali disordini, a seguito di una scorretta nutrizione, è rappresentato dal sovrappeso che può poi portare all’obesità. Stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità indicano che per il 2015 gli adulti in sovrappeso saranno circa 2,3 miliardi e gli obesi più di 700 milioni, mentre in Italia emerge come sovrappeso e obesità in età evolutiva non siano un fenomeno raro. Dati epidemiologici riferiti al 2008, mostrano come il 24% dei bambini risulta in sovrappeso e il 12% è obeso: le conseguenze di questa situazione potranno essere percepite solo negli anni futuri.

Il settore della nutrizione, per la sua intrinseca multidisciplinarietà, fin dall’inizio ha visto convergere al suo interno una molteplicità di competenze, da parte di figure professionali diverse tutte ascrivibili all’ambito sanitario. Questo interazione sul campo ha certamente e positivamente contribuito alla divulgazione del concetto di Nutrizione.

In questo senso, il Ministero della Salute, tramite il Consiglio Superiore di Sanità che ne rappresenta l’organo di consulenza, ha delineato, per la prima volta in modo ufficiale, le competenze del biologo in materia di nutrizione. In tale parere ufficiale, viene sancito che il biologo può elaborare diete rivolte ai soggetti sani, con il fine di migliorare o mantenere il loro benessere fisico. A questo, si affianca la possibilità a tutti gli effetti di definire profili nutrizionali a “soggetti cui è stata diagnosticata una patologia”. Il parere ministeriale correttamente precisa come questo debba essere preceduto da un “accertamento delle condizioni fisio-patologiche effettuato dal medico chirurgo”.

Vengono inoltre chiaramente distinte le competenze del dietista da quelle del biologo: il primo può solo agire in collaborazione con il medico, mentre il biologo può, in modo completamente autonomo, elaborare profili nutrizionali.
Quindi, tale autonomia operativa del biologo sussiste fintanto che non si sospetti la presenza di qualche patologia a carico del cliente: in questo caso, il biologo deve astenersi da qualunque indicazione nutrizionale, rimandando il cliente-paziente alle competenze del medico.

E’ auspicabile che questo parere ministeriale, offrendo al cittadino-paziente indicazioni sempre più precise sulle competenze delle diverse figure sanitarie in materia di nutrizione, possa contribuire alla piena valorizzazione di tutti quegli aspetti, sia fisici che comportamentali, volti al benessere della persona.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

sabato 26 giugno 2010

J.W. Goethe


(Goethe nella campagna romana; olio su tela di J.H.W. Tischbein)

E' grigia, caro amico, qualunque teoria. Verde è l'albero d'oro della vita. (J.W. Goethe, Il Faust)

Letta la prima volta, questa frase mi ha subito folgorato. E da allora mi ha accompagnato sempre, è capitato si riproponesse nella mia mente, la appuntassi all’angolo di un quaderno, sui fogli di qualche articolo scientifico.

Quando tutto questo è iniziato? Nel 1993 credo, quando stavo preparando l’esame di biochimica all’università.
Dove l’ho letta? Il famoso Rawn, libro da studiare intensamente per l’esame di biochimica, apriva ogni capitolo con una frase significativa, legata al mondo della scienza.
Goethe era in uno dei primi capitoli, a dare il saggio incoraggiamento per lo studio di quell’affascinante materia e per le vicende della vita.

Ho quindi voluto proporre questa frase all’apertura del blog, in quanto mi sembra in accordo con quello che vorrei fosse l’approccio alla Scienza: una visione non solo tecnica, bensì proiettata alle vicende ed ai preziosi limiti dell’Uomo.

mercoledì 23 giugno 2010

Scienza della Sostenibilità a Roma


Roma ospita la seconda edizione della Conferenza Internazionale sulla Scienza della Sostenibilità.
Incontro fra mondo accademico e industriale, al fine di individuare le migliori strategie economiche e sociali per preservare il nostro Pianeta.



La scienza della sostenibilità, nata agli inizi del 21° secolo, è una disciplina che ha visto la luce all’interno degli ambienti accademici. Il nome stesso ne sottolinea l’obbiettivo, cioè quello di dare al concetto globale di sostenibilità un indirizzo più analitico e strutturato. Ecco quindi che tale scienza si fonda sui concetti di sviluppo sostenibile e di scienza ambientale.

Lo sviluppo sostenibile rappresenta un preciso approccio globale, volto a coniugare i bisogni umani con la volontà-necessità di rispettare l’Ambiente circostante. Esso prevede molteplici azioni locali a breve-medio termine, che devono necessariamente portare a programmi a più ampio respiro, di impatto mondiale, rivolto alle generazioni future.
La scienza ambientale identifica invece un settore comune, in cui convergono diverse discipline fra cui la biologia, la chimica, la fisica, la geologia con lo scopo di identificare e risolvere i problemi a livello ambientale. Essa prevede sia un approccio di tipo socio-culturale che più tecnologico, al fine di migliorare la qualità dell’ambiente e del nostro approccio con esso.

La scienza della sostenibilità, attraverso quindi i filoni dello sviluppo sostenibile e della scienza ambientale, fornisce delle indicazioni qualitative sul come attuare la sostenibilità.
In parallelo, a seguito di ogni azione sul campo promulgata dalla scienza della sostenibilità, andranno individuate precise metodologie, volte a monitorare e valutare quantitativamente i risultati ottenuti, al fine di orientare meglio gli interventi di sostenibilità.

Facendo seguito alla prima Conferenza Internazionale sulla Scienza della Sostenibilità (ICSS), svoltasi all’Università di Tokyo nel febbraio 2009, oggi presso l’Università la Sapienza di Roma viene inaugurata la seconda edizione.
La Conferenza di Roma ha il supporto dell'Istituto per la Pace e la Sostenibilità presso l’Università delle Nazioni Unite (UNUISP) di Tokyo, del Centro Interuniversitario di Ricerca per lo Sviluppo Sostenibile (CIRPS) dell’Università la Sapienza di Roma, del centro Sistemi di Ricerca Integrata per la Scienza della Sostenibilità (IR3S) dell'Università di Tokyo e della Scuola della Sostenibilità della Arizona State University.

Obiettivo della Conferenza Internazionale sulla Scienza della Sostenibilità a Roma (23-25 giugno 2010), attraverso l’attuazione di un dialogo interdisciplinare fra diverse scienze, è quello di dare impulso alla materia della sostenibilità in ambito accademico. Questo può quindi rappresentare il punto di partenza per un incontro trasversale fra i rappresentati dei centri di ricerca scientifica sulla sostenibilità, con il mondo dell'industria, la società civile e le istituzioni pubbliche.
Obiettivo ultimo sarà quello di diffondere la co-scienza della sostenibilità mediante la diffusione di informazioni, dati e sapere scientifico dai (talvolta) ristretti confini del mondo accademico verso l’intera società.

Auspichiamo quindi che la Conferenza di Roma contribuisca allo sviluppo di un innovativo ed efficace approccio globale, al servizio dell’ambiente e della società, per salvare l’Uomo.

martedì 22 giugno 2010

Il colesterolo è controllato dal cervello

I livelli di colesterolo nel sangue sono legati, non solo all’attività del fegato ed al nostro quotidiano regime alimentare, ma anche all’azione remota svolta dal cervello.
E’ stato identificato un nuovo meccanismo regolativo dei livelli endogeni di colesterolo, molecola considerato come un importante fattore di rischio cardiovascolare.


Il colesterolo è una molecola lipidica, componente fondamentale della membrana di tutte le cellule animali. Esso è scarsamente idrosolubile e va ad inserirsi all’interno del doppio strato fosfolipidico della membrana cellulare.
Il colesterolo intervenendo nella formazione e nella riparazione delle membrane cellulari si comporta, insieme alle molecole proteiche, come una sorta di filtro che regola il passaggio di sostanze attraverso la membrana cellulare stessa.

Questa molecola è coinvolta nella biosintesi della vitamina D, degli ormoni steroidei e degli ormoni sessuali, quali androgeni, testosterone, estrogeni e progesterone.
L'uomo produce fisiologicamente, in modo autonomo, la maggior parte del colesterolo necessario alla sue cellule, mentre solo una piccola parte (in media circa il 10% del fabbisogno totale giornaliero) viene assunta attraverso l'alimentazione.
La maggior parte del metabolismo del colesterolo avviene infatti nel fegato.

Il colesterolo non è libero nel sangue, ma si lega a specifiche proteine di trasporto, formando le lipoproteine. A seconda del tipo di trasportatore con cui si complessa, il colesterolo si classifica come VLDL (a bassissima densità), LDL (a bassa densità) e HDL (ad alta densità). Circa il 60-80% del colesterolo circolante nel sangue risulta essere nella forma LDL. Le lipoproteine LDL possono rilasciare il colesterolo a livello della parete endoteliale dei vasi, contribuendo alla formazione della placca ateromatosa tipica dell'aterosclerosi. All’opposto le lipoproteine HDL rimuovono il colesterolo dalle arterie e lo riportano al fegato.

L’azione opposta lipoproteine LDL-HDL dovrebbe quindi complessivamente garantire un buon equilibrio nei livelli ematici di colesterolo. In questo senso, il colesterolo è solo uno, ma non l’unico, fattore di rischio per malattie cardiovascolari: fra gli altri, ricordiamo il fumo, l’obesità, l’ipertensione, il diabete.

E’ importante ricordare come una corretta alimentazione vada a beneficio non tanto della quantità di colesterolo assunta con la dieta bensì della produzione endogena della molecola.
Con un approccio strettamente naturalistico, si può scegliere di consumare più tè verde, sostanza che va ad inibire un’importante enzima nella sintesi del colesterolo, e meno caffè, bevanda che tende ad innalzare la colesterolemia totale, riducendo inoltre l’assunzione di carboidrati, precursori del colesterolo.
E’ noto inoltre come l’attività fisica aerobica (corsa, ciclismo, ecc.), condotta a media intensità, sia in grado di aumentare la frazione HDL delle lipoproteine (quella cioè che rimuove il colesterolo dalle arterie).

Appare quindi come il controllo del colesterolo ematico possa essere raggiungibili da molteplici fronti. In questo contesto, un gruppo di ricercatori dell'Università di Cincinnati (Ohio) ha delineato una nuova via di controllo della colesterolemia, che passa attraverso l’ipotalamo.

L’ipotalamo è una ghiandola posizionata centralmente, all’interno dei due emisferi cerebrali. Questa struttura anatomica è deputata a numerose funzioni, fra cui il controllo dei meccanismi autonomici periferici, dell'attività endocrina, della termoregolazione, del sonno.
Nell’ipotalamo è espresso un particolare recettore proteico (MC4R) che viene riconosciuto e legato dalla grelina. Questa, detta anche ormone della fame, è una molecola prodotta da specifiche cellule dello stomaco, la cui sintesi aumenta a digiuno e diminuisce circa un'ora dopo il pasto.
Nello studio, pubblicato su “Nature Neuroscience”, emerge come la grelina, legandosi al recettore MC4R nell’ipotalamo, attua un controllo remoto sul fegato, diminuendo il riassorbimento del colesterolo da parte dell’organo stesso, con conseguente aumento della colesterolemia.
Ulteriori ricerche saranno necessarie, avendo i topi dei livelli di HDL fisiologicamente più elevati rispetto a quelli dell’uomo. Tuttavia, questo studio offre nuove prospettive allo sviluppo di farmaci anticolesterolo che abbiano come specifico target il meccanismo regolativo mediato dalla grelina.
(da Roberto Insolia-GO articoli)

sabato 19 giugno 2010

Migliore Immagine dell’anno 2006


L’immagine che apre questo blog è la foto scelta come Migliore Immagine dell’anno 2006 dalla rivista scientifica “BMC Cell Biology”. E’ tratta dall’articolo Stout et al. 2006: Deciphering protein function during mitosis in PtK cells using RNAi.
Essa, sulla destra, mostra elegantemente un difetto nel processo di divisione mitotica, a seguito del knockdown della chinesina Eg5, attraverso tecnica di siRNA. Le chinesine sono una famiglia di proteine che interagiscono specificatamente con i microtubuli del fuso, durante la mitosi. A sinistra invece si vede una cellula correttamente in mitosi. I microtubuli sono marcati in verde, la chinesina in rosso, il DNA in blu.

Perché l’ho scelta?
In verità, non c’è stata alcuna motivazione tecnico scientifica. Semplicemente ha subito attirato la mia attenzione dal punto di vista estetico, stimolando piacevolmente il mio lato più artistico, quello del fotografo amatoriale.
Provate ad estrapolare questa foto dal contesto del blog, estrapolatela dall’articolo scientifico. Non vi sembra un qualcosa di bello, quello che volete voi, comunque una qualche espressione artistica, con un che di emozionale?

martedì 15 giugno 2010

Importanti progressi nella cura del melanoma


Il melanoma, il più aggressivo tumore della pelle arretra di fronte alle ultime scoperte della ricerca scientifica. I risultati di uno studio condotto a livello mondiale mostrano un significativo miglioramento nella sopravvivenza dei pazienti in fase avanzata di malattia, tramite l’impiego di un anticorpo monoclonale di nuova generazione che va ad attivare il sistema immunitario.
Se probabilmente questa notizia potrà avere un impatto mediatico importante, in vista anche dell’arrivo del sole estivo, è importante sottolineare come la corretta prevenzione, volta a limitare l’esposizione al sole, sia fondamentale nel fronteggiare questo temibile tumore.


La nostra cute può andare incontro ad una delle degenerazioni maligne più aggressive in grado di colpire il nostro organismo e che, annualmente in Italia, vede l’identificazione di circa 10 nuovi casi ogni 100.000 abitanti. Il melanoma, ritenuto fino a pochi anni addietro una neoplasia pressochè rara, mostra ora una costante crescita, tanto che la sua incidenza è quasi raddoppiata negli ultimi 10 anni. Colpisce prevalentemente soggetti di età compresa tra i 30 ed i 60 anni, risultando decisamente più frequente nei soggetti di origine europea.

Il melanoma è un tumore maligno che si origina da specifiche cellule della cute, dette melanociti. Il melanocita è una cellula deputata alla sintesi di melanina, sostanza che oltre a pigmentare la pelle, esercita una funzione protettiva dai raggi solari. La prognosi è strettamente legata allo spessore che il melanoma ha raggiunto nella pelle al momento della diagnosi e della successiva asportazione. Tendenzialmente i melanomi si formano a livello del tronco, delle gambe, del viso mentre risultano meno comuni sulla testa e sul collo.

In termini di prevenzione, è importante limitare l’esposizione solare, evitando soprattutto le ore più calde della giornata, in particolare per le persone con pelle più chiara. Tuttavia, nel momento in cui si innesca la degenerazione maligna del melanocita diventa fondamentale, a fronte dell’aggressività spesso manifestata da tale tumore, poter disporre di terapie mirate ed estremamente efficaci.

Sulla prestigiosa rivista scientifica “New England Journal of Medicine”, sono stati presentati gli incoraggianti risultati di uno studio mondiale per la cura del melanoma.Un anticorpo monoclonale (ipilimumab) di ultima generazione è stato impiegato su circa 600 pazienti, in uno studio sperimentale di fase 3, dimostrandosi in grado di attivare specificatamente le cellule T del sistema immunitario, contro le sole cellule tumorali. Uno studio di fase 3 rappresenta l’ultimo passo prima della registrazione ed autorizzazione alla vendita di un farmaco.

Lo studio dimostra come la nuova molecola sia in grado di migliorare la sopravvivenza del 34% in pazienti colpiti da melanoma in fase avanzata, rispetto a quelli trattati con un vaccino peptidico. Tuttavia la nuova terapia non è stata esente da effetti collaterali sia lievi (diarrea) che gravi (sono stati registrati 14 decessi).

La molecola ipilimumab, sebbene il suo uso non sia stato ancora approvato a livello clinico nella cura del melanoma, sarà disponibile per una fascia di pazienti, selezionati in base all’estrema gravità del tumore (uso compassionevole del farmaco).
A fronte di questi dati, si aprono quindi nuovi e promettenti scenari per la terapia del melanoma in fase avanzata.

venerdì 11 giugno 2010

La Scienza siamo anche noi


Buongiorno a tutti, permettetemi di presentarmi: sono un laureato in Scienze Biologiche dell’Università di Pavia, appassionato di scrittura scientifico-divulgativa e desideroso di proporre uno spazio in cui trattare notizie e tematiche di carattere biologico-medico.

In questo blog, vorrei quindi fornirvi degli spunti di riflessione, partendo da quanto oggi emerge a livello della comunità scientifica e va a rivolgersi alla nostra società. Soprattutto, quello che vorrei offrire è una visione non strettamente tecnica del dato scientifico, bensì valutarlo attraverso l’Uomo, in riferimento all’impatto che lo stesso dato può o potrebbe avere sulla nostra vita. Essenzialmente, mi interessa il come una persona possa recepire quel preciso risultato scientifico: cosa che, francamente, ritengo rivesta un ruolo fondamentale nel promuovere un’attenta e lucida cultura della Scienza, all’interno della vita quotidiana. Perchè non ci sia solo il dato tecnico ma anche tutti noi, a leggerlo, a ri-leggerlo (capita, non lo abbiamo capito….), a chiederci cosa possa venirne nel futuro, per i nostri figli. Ecco perchè “La Scienza siamo anche noi”.

Avviciniamoci quindi amichevolmente ai nostri geni, a quanto ci portiamo dentro dalla nascita, al (quasi) tutto che è già pre-determinato all’interno delle nostre cellule. E studiamolo, capiamolo per poi decidere se vogliamo assumerci la responsabilità di correggerlo, laddove sia sbagliato. Vorrei dire: le nostre cellule sono tutte qui, pronte ad essere indagate, allineate come le pagine di un libro già aperto, prendiamoci il giusto tempo per capirle e, solo dopo, avremo gli strumenti per individuarne gli errori. E stiamo attenti, controlliamo sempre che le pagine siano nel giusto ordine….

Poi, partendo dal nostro microcosmo, cellulare e umano, guardiamoci intorno, c’è tanto che possiamo fare all’esterno di noi. Per esempio, promuoviamo una cultura della nutrizione: perché solo nel pieno delle nostre facoltà e conoscenze, saremo in grado di scegliere ciò che in ogni momento della nostra vita potrà essere più salutare per noi. Fatto questo saremo nelle condizioni fisiche e psicologiche più idonee per maturare delle lucide opinioni in merito a quanto ci sta intorno, all’agricoltura biologica, ai cibi transgenici, agli integratori. Vorrei dire: iniziamo a mangiare sano per poi decidere cosa mangiare.

E cosa dire dell’ambiente in cui viviamo? Esso ci influenza e noi stessi lo influenziamo, con i nostri comportamenti, con le nostre scelte sia di carattere macro-sociale che di tipo micro-comportamentale. Vorrei dire: pensiamo prima a dove buttiamo gli scontrini rimasti in tasca, e poi discutiamo delle strategie più opportune per lo smaltimento dei rifiuti tossici.
Con questo intento, ad ampio spettro, ho voluto proporre la frase “L'Uomo, i geni, la nutrizione, le malattie, il suo ambiente”.

Grazie a tutti per il tempo che vorrete dedicare alla lettura ed ai commenti di questo blog.