E' grigia, caro amico, qualunque teoria. Verde è l'albero d'oro della vita.

J.W.Goethe, il Faust

giovedì 29 luglio 2010

Cellule staminali cardiache: risultati e future applicazioni

Cellule staminali, altamente indifferenziate, possono essere isolate dal cuore dei pazienti. Tramite complesse procedure, queste stesse cellule possono trasformarsi in cellule specifiche del muscolo cardiaco, potendo quindi sostituire aree danneggiate dell’organo come avviene per esempio a seguito di infarto.


Le patologie a carico del muscolo cardiaco e del sistema circolatorio rappresentano oggi la principale causa di mortalità nei paesi industrializzati. In particolare, cardiopatia ischemica e ictus concorrono a circa un quarto di tutti i decessi che si registrano annualmente.
In Europa più di 1 milione di individui muore ogni anno per infarto del miocardio.

LE CELLULE STAMINALI
La cellula staminale è una cellula altamente indifferenziata, con spiccate capacità replicative, potenzialmente in grado di differenziarsi in qualunque tipo di cellula. Questa è dette cellula pluripotente.
Nelle primissime fasi dello sviluppo embrionale dei mammiferi, tutte le cellule sono virtualmente uguali. Infatti ogni cellula formante l’embrione è in grado di svilupparsi in qualunque linea cellulare, propria di uno dei tessuti e degli apparati formanti poi l’organismo nella sua interezza.
Passate le prime fasi dell’embriogenesi tuttavia, le cellule si specializzano, andando ad esprimere solo specifiche molecole sulla membrana. Questo processo di differenziazione indirizza funzionalmente le cellule verso un determinato tessuto ed organo.

Questo processo di sviluppo nei mammiferi è a senso unico. In condizioni normali infatti, non accade mai che una cellula specializzata possa de-differenziarsi verso un suo precursore, più versatile.
Oggi è noto come, all’interno di ogni organo, vi siano delle cellule, in numero esiguo, che rappresentano delle linee progenitrici con delle capacità di parziale pluripotenza.

CELLULE STAMINALI NEL CUORE
In merito agli approcci più innovativi per la cura delle patologie cardiache, diverse ricerche hanno impiegato cellule staminali, isolate dal midollo osseo. Complessivamente i risultati, seppur positivi in termini di sicurezza del trattamento, non sono stati soddisfacenti soprattutto per la difficoltà di indurre una delle peculiarità della cellula cardiaca (cardiomiocita), cioè la sua capacità di contrarsi in modo ritmico. Questo in ultimo va a discapito della capacità da parte del cuore di pompare il sangue nel sistema circolatorio dell’organismo.

Nel quadro dei progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea (EU FP7), vi è una linea denominata CardioCell che si dedica specificatamente alla messa a punto di nuove strategie terapeutiche per la riparazione del tessuto cardiaco danneggiato.
A seguito di un infarto infatti alcune cellule cardiache vanno incontro a morte. Queste non sono sostituite da nuove cellule muscolari bensì da tessuto cicatriziale fibroso. La ricerca di base e preclinica sta quindi investendo molte risorse per individuare tecniche efficaci e sicure che consentano di trapiantare cellule muscolari cardiache all’interno del tessuto danneggiato.

In questo contesto, un gruppo di ricercatori dell’Imperial College di Londra sta sperimentando una nuova tecnica per identificare ed isolare, direttamente dal cuore dei pazienti, cellule staminali cardiache, che siano poi in grado di differenziarsi in cellule cardiomiocitiche.

Gli aspetti salienti della ricerca inglese sono tre: 1) le cellule isolate sono realmente indifferenziate, cioè staminali; 2) le cellule sono in grado di attivare i corretti meccanismi molecolari per differenziarsi in cardiomiociti; 3) prova fondamentale della loro staminalità è data dal fatto che non produco la miosina cardiaca, proteina tipica della cellula ormai differenziata del muscolo cardiaco.

La tecnica, inizialmente messa a punto nel topo, è stata preliminarmente trasferita con successo nell’uomo. Ulteriori conferme sono necessarie, essendo infatti diversi i marcatori che vengono impiegati per l’identificazione delle cellule staminali, nel modello cellulare del topo rispetto all’uomo.

L’obbiettivo futuro è quello di ottimizzare la tecnica in modo da creare una procedura terapeutica che preveda l'identificazione, la raccolta e la moltiplicazione in vitro di queste cellule, per un’applicazione clinica sicura nel caso di un danno al muscolo cardiaco, quale può essere quello causato dall’infarto.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

giovedì 22 luglio 2010

La longevità è scritta nel genoma umano

Oggi viviamo in media 80-85 anni. Il motivo per il quale alcune persone sono addirittura più longeve, cioè vivono più della media, è in parte scritto nei loro geni.


L’invecchiamento rappresenta quel processo di tipo degenerativo a cui le cellule, a livello microscopico, insieme a tutto l’organismo, a livello macroscopico, vanno fisiologicamente incontro.
La longevità definisce una durata della vita notevolmente superiore alla media.
Oggi nei paesi industrializzati gli individui vivono in media 80-85 anni. Questo dato si contrappone a quello dei paesi meno sviluppati nei quali gli uomini vivono dai 35 ai 60 anni.

E’ noto come il generale miglioramento delle condizioni di vita, il progresso delle conoscenze nella medicina e nella biologia con la comprensione dei meccanismi patologici alla base di molte malattie, e il conseguente sviluppo di strategie preventive prima che curative, abbiano portato sia ad un aumento della durata media della vita che ad una diminuzione della mortalità.
Si stima infatti che la popolazione mondiale potrà arrivare agli 8 miliardi entro il 2025.

Si ritiene che l’azione combinata di molteplici fattori ambientali (stile di vita, attività fisica, dieta, assenza di fattori di rischio quali fumo e obesità) con una specifica predisposizione genetica possa avere dei benefici sul processo dell’invecchiamento, sia micro che macroscopico, portando in alcuni contesti anche a casi di sostanziale longevità.

LA VARIABILITA’ DEL GENOMA UMANO
Il progetto di studio del genoma umano ha visto il raggiungimento nel 2001 di un traguardo epocale, con la stesura di una prima versione della sua intera sequenza. Uno sforzo tecnologico e finanziario a livello laboratoristico ha infatti consentito, nell’arco di circa 10 anni, di allineare le circa 3 miliardi di basi del DNA (acido desossiribonucleico) di Homo sapiens.

Successivi studi di caratterizzazione di questa enorme sequenza, di per sé poco informativa, hanno evidenziato come solamente un quarto circa di essa sia costituita da geni. Inoltre, è emerso come le sequenze geniche realmente espresse a livello cellulare corrispondano a solo il 2-3% del genoma complessivo.

La comparazione dei genomi di individui diversi ha addirittura dimostrato come essi siano fondamentalmente identici se non per una piccola porzione, pari a circa lo 0,1% della loro lunghezza totale. Questo dato apparentemente irrisorio, corrisponde tuttavia a circa 3 milioni di basi di DNA.

In questo 0,1% risiede la variabilità genetica della specie umana.
Nelle sue 3 milioni di basi di DNA sono presenti sia le varianti più frequenti, quindi verosimilmente benigne, del genoma (polimorfismi) che eventuali mutazioni (rare variazioni genetiche), potenzialmente responsabili di malattie ereditarie.

STUDIO DEI CARATTERI COMPLESSI
I polimorfismi rappresentano quindi la variabilità genetica più comune, perché frequente, fra gli individui e quindi apparentemente senza alcune effetto dannoso sulle cellule dell’organismo.
Un polimorfismo è presente circa ogni 1000 basi di DNA, all’interno del nostro genoma.
Questi polimorfismi, nel corso degli anni, sono diventati un potentissimo strumento per estese analisi di biologia molecolare, soprattutto nel campo della comprensione delle basi genetiche delle patologie complesse.

I tratti complessi, quali l’invecchiamento e la longevità ad esso connessa, piuttosto che le patologie multifattoriali, quali l’ipertensione o l’infarto, sono infatti quei contesti nei quali si ritiene vi possa essere una complessa interazione fra fattori genetici (propri dell’individuo) ed ambientali (esterni all’individuo).

Nel corso degli anni, i ricercatori hanno imparato a sfruttare la presenza dei polimorfismi del DNA, all’interno dei genomi di ogni individuo, al fine di usarli come indicatori di specifiche regioni del nostro genoma, potenzialmente correlate all’insorgenza di malattie.

LA COMPLESSITA’ GENETICA ALLA BASE DELLA LONGEVITA’
L’impiego dei polimorfismi genetici per studiare la longevità nell’uomo è stata efficacemente applicata da un gruppo di ricercatori dell’Università di Boston, con in prima linea l’italiana Paola Sebastiani.

Lo studio pubblicato su Science è stato condotto su più di 500.000 polimorfismi diversi del DNA, comparandone la presenza fra 1055 individui di età compresa fra i 90 e i 115 anni (età media 103 anni) e 1267 soggetti di controllo, con età media di 73 anni.

Il modello genetico così ottenuto, mediante complesse analisi biostatistiche, punta l’attenzione su 105 polimorfismi diversi, localizzati in 77 geni responsabili di molteplici funzioni all’interno delle cellule.
Attraverso la presenza di questi 105 marcatori è possibile fare una stima sull’aspettativa di vita, essendo essi presenti nel 77% degli ultra centenari indagati rispetto ai controlli.

I ricercatori hanno poi valutato l’associazione di queste varianti genetiche comuni con alcune malattie. Sono emersi quindi 19 gruppi diversi, costituiti ognuno da un pool caratteristico di polimorfismi, ognuno dei quali correla con la comparsa di tipiche malattie legate all’invecchiamento, quali la demenza, l’ipertensione, le patologie cardiovascolari.

Gli stessi autori sottolineano come il modello non sia perfetto: questo conferma come fattori ambientali, indipendenti da quelli genetici, possano avere un ruolo nella longevità della specie umana.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

giovedì 15 luglio 2010

Identificate cellule staminali responsabili del melanoma

Una ristretta ma altamente specifica popolazione di cellule staminali è responsabile del melanoma, il più aggressivo tumore della pelle.


Il melanoma rappresenta una delle patologie tumorali più aggressive in grado di colpire il nostro organismo: è il tumore della pelle che attualmente interessa oltre 100.000 persone nel mondo, la cui incidenza è aumentata del 15 per cento negli ultimi dieci anni
In Europa, il melanoma mostra tassi di incidenza più alti fra gli abitanti dei Paesi del Nord, con carnagione e occhi chiari. Annualmente in Italia, si ha l’identificazione di circa 10-12 nuovi casi ogni 100.000 abitanti.

L’esposizione solare intensa, soprattutto nelle ore più calde della giornata e spesso concentrata in poche settimane all’anno, rappresenta il più importante fattore di rischio.

PROGNOSI
La prognosi del melanoma cutaneo, cioè la velocità di accrescimento della massa tumorale, è strettamente legata allo spessore che esso ha raggiunto nella pelle, al momento della diagnosi e della successiva asportazione.
Negli ultimi anni la sopravvivenza a questo tumore è significativamente migliorata.

Attraverso capillari campagne di prevenzione e lo sviluppo di tecniche diagnostiche sempre più sensibili, è infatti possibile arrivare a fare diagnosi molto precocemente, quando cioè il melanoma non ha ancora raggiunto lo spessore di un millimetro. In questi casi la prognosi è molto favorevole, con tassi di sopravvivenza fra l’87% e il 97%. Nel momento in cui lo spessore della massa tumorale è superiore ai tre millimetri, la sopravvivenza può scendere al 50%.

CELLULE STAMINALI TUMORALI
Per definizione, la cellula staminale è una cellula altamente indifferenziata, con spiccate capacità replicative che la rendono virtualmente immortale.

Tradizionalmente, il meccanismo patogenetico alla base dello sviluppo tumorale prevede l’accumulo di una serie di mutazioni casuali, a livello del DNA della cellula, che in ultimo portano la cellula stessa ad una replicazione incontrollata.
Si ritiene che la cellula staminale tumorale, detta anche cellula zero, costituisca l’origine stessa di questo processo, rappresentando l’ultimo e più maligno baluardo del tumore nei confronti delle terapie farmacologiche.
Queste cellule staminali, pur rappresentando una parte minoritaria del pool di cellule tumorali, presentano un tasso di crescita molto inferiore rispetto al resto della massa tumorale. Questa aspetto consente loro di eludere l’azione della maggioranza dei farmaci antitumorali.

Quindi, dopo l’apparente eradicazione del tumore e la sospensione della terapia farmacologica, le cellule staminali tumorali sono in grado di replicarsi, generando velocemente nuove cellule cancerogene. Nella maggior parte dei casi, addirittura queste nuove cellule danno origine ad un tumore anche più aggressivo del primo.

CELLULE STAMINALI NEL MELANOMA
Fino ad oggi, non erano state identificate le cellule staminali all’interno del melanoma.

Un gruppo di ricercatori della Stanford University School of Medicine in California ha pubblicato sulla rivista Nature la prima identificazione di cellule, classificabili come staminali, all’interno del melanoma, il più aggressivo tumore della pelle.

La molecola CD271 è stata infatti usata come lo specifico marcatore della presenza delle cellule staminali nel melanoma.
Le cellule staminali, CD271 positive sulla loro membrana, risultano invece prive di altre molecole, impiegate come specifici bersagli dei farmaci antitumorali, solitamente utilizzati nella cura del melanoma.

I ricercatori californiani hanno dimostrato le capacità replicative in senso tumorigenico delle cellule CD271 positive: infatti, queste cellule staminali sono in grado di generare un melanoma, da frammenti di cute umana trapiantati nel modello sperimentale del topo. Al contrario, cellule CD271 negative non sono in gado di generare alcun tessuto tumorale.

PROSPETTIVE FUTURE
Per lungo tempo si è pensato che l’aggressività e la resistenza alle terapia farmacologiche, proprie dei tumori, fossero dovute alle caratteristiche stesse delle cellule maligne.
Oggi, sia nel melanoma che in altri tumori, si sta gettando nuova luce sull’essenza stessa della loro malignità ed invasività.

All’interno della popolazione di cellule tumorali, vi è un gruppo esiguo di cellule staminali, certamente immune a molte terapie adottate finora ed in grado di generare nuove cellule cancerogene. La scoperta di queste staminali, consentirà di focalizzare la ricerca di nuove terapie testando direttamente la resistenza di queste cellule.

Dopo il recente annuncio al congresso mondiale di oncologia svoltosi a Chicago (46° Congress of the American Society of Clinical Oncology, ASCO) dell’efficacia di un anticorpo monoclonale (ipilimumab) nell’attivare il sistema immunitario contro il melanoma, complessivamente, a fronte anche delle nuove conoscenze sulle cellule staminale tumorali, si aprono nuovi e promettenti scenari per la terapia del più aggressivo tumore della pelle.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

giovedì 8 luglio 2010

Pap test e tumore della cervice uterina: screening preventivo in Italia

Il cancro della cervice uterina rappresenta il secondo tumore maligno nella donna. Il gruppo tecnico nazionale Passi (Progressi delle aziende sanitarie per la salute in Italia) presenta risultati positivi in merito al programma di screening nazionale, mediante Pap test, per il tumore al collo dell’utero.


Il cancro della cervice uterina è una neoplasia maligna che si sviluppa nell’estremità inferiore dell’utero.
L’utero è l’organo dell’apparato femminile dove si stabilisce la cellula uovo dopo la fecondazione da parte dello spermatozoo e dove quindi si sviluppa l’embrione durante la gravidanza. L’utero ha la forma di un imbuto rovesciato, con la parte superiore che costituisce il corpo dell’organo e l’estremità inferiore, più ristretta, chiamata collo o cervice.

EPIDEMIOLOGIA
Il cancro della cervice uterina rappresenta, a livello mondiale, il secondo tumore maligno nella donna. Sebbene la maggioranza delle donne nel corso della propria vita non mostri complicazioni a seguito di un’infezione virale potenzialmente in grado di sviluppare questo tumore, in Italia si stimano circa 3.400 nuovi casi all’anno. Il tasso di incidenza è di 10 casi ogni 100.000 donne, con circa 1.000 decessi.
Negli ultimi anni, è stato evidenziato un significativo trend di diminuzione sia nell’incidenza della patologia che nella mortalità ad essa legata.

ANATOMIA
La cervice rappresenta il collegamento anatomico tra l’utero e la vagina. Il collo dell’utero, per circa la metà della sua lunghezza, può risultare visibile con adeguate attrezzature mediche mentre il resto si colloca al di sopra della vagina, più all’interno.
Due differenti tipi di cellule epiteliali rivestono la cervice: cellule colonnari, ciliate, a singolo strato sono presenti nella parte superiore rivolta verso l’utero; cellule squamose, appiattite, disposte a strati su una membrana basale rivestono la zona più prossimale alla vagina.
La zona di transizione definisce il punto anatomico di incontro fra questi due tipi cellulari. Questa zona è per sua natura fisiologicamente soggetta al fenomeno della metaplasia, cioè la trasformazione reversibile da un tipo cellulare all’altro, a seguito di precisi stimoli (la pubertà, il regolare ciclo mestruale, la menopausa).

Tuttavia, il fenomeno della metaplasia può assumere i connotati di una trasformazione non più fisiologica e strettamente controllata: l’epitelio colonnare può venire infatti sostituito da un tessuto epiteliale, squamoso di tipo metaplastico.
La maggior parte dei tumori della cervice si sviluppa dalle cellule che si trovano proprio nella zona di transizione.

CAUSE
E’ noto come il principale fattore di rischio per lo sviluppo del tumore alla cervice sia l’infezione da Papilloma virus umano (HPV). A livello mondiale, l’infezione da HPV rappresenta la più comune infezione a trasmissione sessuale negli adulti.
Alcuni ceppi di questo virus sono infatti in grado di interferire con la fisiologica trasformazione metaplastica a livello delle cellule della cervice, portando allo sviluppo di una neoplasia maligna.

Alcuni fattori sembrano aumentare il rischio di insorgenza del tumore alla cervice: il fumo di sigaretta, una dieta povera di frutta e verdura, l’obesità, la co-infezione da Clamidia, la famigliarità per questo tumore (sebbene al momento non siano stati identificati geni responsabili di un aumentato rischio).

VACCINO E PAP TEST
L’uso del profilattico e la vaccinazione rappresentano delle efficaci misure che possono limitare le possibilità di infezione, pur non garantendo la totale immunità.
Attualmente in Italia è in commercio un vaccino contro l’infezione da HPV. Questo vaccino, di tipo proteico, è efficace contro i ceppi di HPV-16 e HPV-18, responsabili di circa due terzi dei casi di tumore al collo dell’utero. Lo stesso vaccino è inoltre efficace contro le infezioni da HPV-6 e HPV-11, responsabili del 90% circa dei condilomi genitali.

Generalmente le prime fasi dello sviluppo tumorale sono asintomatiche ed anche successivamente la sintomatologia può non essere facilmente riconducibile al sospetto di una patologia tumorale. E’ importante comunque prestare attenzione ad eventuale dolore durante i rapporti sessuali, oppure perdite anomale di sangue, per esempio dopo un rapporto sessuale, tra due cicli mestruali o durante la menopausa.

La strategia di prevenzione assolutamente raccomandata è quella dei regolari controlli ginecologici.
Nel corso della visita, infatti, può essere effettuato il Pap test, un esame indolore e veloce che permette di identificare la presenza di cellule pre-cancerose. E’ raccomandabile che ogni donna, a partire dall’inizio dell’attività sessuale e comunque non oltre i 25 anni e almeno fino ai 70 anni, si sottoponga al Pap test, ogni 2 anni.

PROGRAMMA DI SCREENING NAZIONALE
Il programma di screening nazionale prevede l’esecuzione del Pap test, ogni tre anni, da parte delle donne nella fascia di età 25-64 anni.

Nel 2007 le donne italiane inserite nel programma di screening sono state circa 12 milioni (pari al 72% della popolazione target).
Soprattutto le donne di età superiore ai 35 anni, con un buon livello di istruzione, si sottopongono al Pap test.
Il programma di screening si sta espandendo sempre di più in Italia, pur essendoci ancora una carenza di partecipazione nel Sud e nelle isole.
Questo è quanto emerge dai dati del gruppo tecnico nazionale Passi (Progressi delle aziende sanitarie per la salute in Italia), il sistema di sorveglianza sanitaria creato dall'Istituto superiore di Sanità.

Risulta come il 75% delle donne tra 25 e 64 anni abbia effettuato almeno un Pap test negli ultimi tre anni, come raccomandato dalle linee guida.
Fattore importante nella scelta di fare il Pap test appare essere il livello di istruzione. Il 72% di donne con il titolo di studio più alto ha fatto il test, rispetto al 66% di quelle con livello di istruzione più basso.
In parallelo, anche la condizione economica risulta avere un peso sulla decisione di accedere al programma di controllo. L'83% delle donne senza problemi economici ha eseguito il Pap test, rispetto al 65% delle donne con difficoltà economiche.

Complessivamente è auspicabile una sempre più capillare informazione in merito al programma di screening per il tumore della cervice uterina, a fronte del fatto che il Pap test rappresenta la strategia più efficace come prevenzione secondaria all’insorgenza di questa patologia.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)

lunedì 5 luglio 2010

La nutrizione: i concetti fondamentali

Presentiamo qui i concetti fondamentali della nutrizione umana: macronutrienti e micronutrienti.

Il termine nutrizione definisce l’atto dell’approvvigionamento da parte degli organismi viventi di tutte quelle sostanze (cibo) necessarie per la loro vita. Oggi, con lo stesso termine si definisce la scienza che studia il rapporto tra le abitudini alimentari (dieta) e lo stato fisico (salute) di una persona.

La nutrizione si basa sul principio che un ottimale stato fisico si raggiunge bilanciando l'assunzione di differenti principi nutritivi, quali glucidi, lipidi, proteine, vitamine.
Questi elementi concorrono essenzialmente a:
produrre energia metabolica per le funzioni vitali (carboidrati, grassi, proteine);
fornire componenti strutturali per la crescita e la riparazione dei tessuti (proteine);
fornire gli elementi necessari alle reazioni biochimiche, all’interno della cellula (minerali e vitamine).

Complessivamente i nutrienti possono essere divisi in macronutrienti (da assumersi in quantità relativamente elevate) e micronutrienti (necessari in piccole quantità).
I macronutrienti comprendono carboidrati, grassi, fibre, proteine e acqua.
I micronutrienti sono i minerali e le vitamine.

Gli aminoacidi sono le unità base delle proteine, mentre i lipidi (grassi) sono fra i costituenti principali delle membrane cellulari e di alcune molecole messaggere all’interno delle cellule.
I macronutrienti hanno il compito di fornire questi componenti base, cioè aminoacidi e lipidi, alle nostre cellule. A loro volta, gli stessi componenti base possono essere impiegati per produrre energia all’interno della cellula.
I grassi forniscono più del doppio di energia rispetto ai carboidrati e alle proteine, anche se l'energia netta a livello cellulare può dipendere da vari fattori, fra cui il grado di assorbimento degli specifici elementi e la stessa attività digestiva.

Gli atomi di carbonio, idrogeno e ossigeno formano le molecole dei carboidrati e dei grassi. I carboidrati possono assumere delle strutture semplici monosaccaridiche (quali glucosio, fruttosio) oppure più complesse, polisaccaridiche come l’amido. I grassi di origine animale sono invece composti da trigliceridi, cioè tre monomeri di acidi grassi legati ad uno scheletro di glicerolo.
E’ importante che nella nostra dieta vi siano anche dei grassi, in quanto alcune di queste molecole (dette essenziali) non sono sintetizzabili all’interno delle nostre cellule.
Gli aminoacidi, componenti base delle molecole proteiche, sono costituiti da atomi di azoto, oltre che di carbonio, idrogeno e ossigeno. Come nel caso dei grassi, vi sono alcuni aminoacidi essenziali che vanno obbligatoriamente assunti attraverso la dieta quotidiana.
Le cellule, attraverso processi biochimici che consumano energia, sono in grado poi di convertire alcuni aminoacidi in glucosio che a sua volta può essere impiegato per produrre energia.

I micronutrienti sono i minerali e le vitamine. Come suggerisce il nome sono sostanze presenti fisiologicamente a basse quantità nel nostro organismo, la cui carenza tuttavia può portare a seri squilibri e patologie. Essi non possono essere sintetizzati all’interno dell’organismo ma, non essendoci alcun alimento che li contenga tutti e nella giusta quantità, è importante avere una dieta varia. Tuttavia, alcune sostanze sono difficilmente assumibili attraverso l'alimentazione e quindi ne è consigliabile la specifica integrazione.

In conclusione, possiamo dire che il vecchio adagio secondo il quale sia importante mangiare un po' di tutto con moderazione, rimane certamente valido.
(da Roberto Insolia - Comunicati-Stampa.net)